La fusione a cera persa è una tecnica scultorea diffusa già nel III millennio a.C., di cui fu maestra l'Antica Civiltà Sarda, e che nei secoli successivi ha conosciuto una notevole fioritura, soprattutto nella scultura greca e romana.
Gli orefici precolombiani, la cui tecnica raggiunse il massimo sviluppo della manifattura dell'oro nella regione «che oggi corrisponde alla Colombia e alla repubblica di Panama», sapevano « trafilare, laminare, dorare il rame, lavorare a sbalzo, fondere le forme, anche con la tecnica della cera perduta, (...)». La manifattura precolombiana dell'oro è stata fatta risalire all'incirca al secondo secolo della nostra era da Max Uhle, tenendo presente comunque che questa datazione rimane a titolo di indicazione.[1]
La civiltà di Dongson[2], sorta nel Tonchino e a nord dell'Annam, che donò ai popoli dell'Indonesia l'uso del bronzo e del ferro, riguardo alla fabbricazione di oggetti di bronzo usavano la tecnica chiamata a cera perduta. Questa «consiste nel modellare in cera o grasso l'oggetto su una base (anima) di creta. Il tutto viene poi ricoperto da uno spesso strato di creta, nel quale si praticano alcuni fori, che servono per l'introduzione del piombo fuso. Quando la creta è secca la si indurisce al fuoco (...) la cera o il grasso si liquefanno e vengono eliminati», si cola il bronzo attraverso gli appositi fori. Quando tutto è raffreddato «si staccano l'anima e l'involucro esterno di creta» restando così l'oggetto di bronzo.[3]
Esistono due modi di servirsi di questa tecnica: