Conflitto del Darfur | |||
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Campo di rifugiati del Darfur in Ciad | |||
Data | 26 febbraio 2003 - 31 agosto 2020 (17 anni e 187 giorni) | ||
Luogo | Darfur, Sudan | ||
Esito | catastrofe umanitaria, repressione del Governo, guerra civile in Ciad dal 2005 al 2010. | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
Perdite | |||
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Il conflitto del Darfur (talvolta chiamato genocidio del Darfur) è un grande conflitto armato nella regione del Darfur, situata nell'ovest del Sudan, cominciato nel febbraio del 2003, quando i gruppi ribelli del Movimento per la Liberazione del Sudan (Sudan Liberation Movement, SLM) e del Movimento Giustizia ed Uguaglianza (Justice and Equality Movement, JEM) iniziarono gli scontri contro il governo del Sudan, accusato di star opprimendo la popolazione non-araba del Darfur.[1] Il governo sudanese rispose agli attacchi avviando una campagna di pulizia etnica contro la popolazione non-araba del Darfur. Questo ebbe l'effetto di provocare la morte di centinaia di migliaia di civili e l'imputazione dell'allora Presidente del Sudan, Omar al-Bashir, per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità da parte della Corte Penale Internazionale (ICC).
Uno dei lati del conflitto era composto principalmente dalle Forze armate del Sudan, forze di polizia e dalle milizie Janjawid (letteralmente "demoni a cavallo"), ovvero un gruppo di miliziani arabi reclutati principalmente fra i membri delle tribù africane locali arabizzate e in minor numero tra i Beduini della tribù Baggara originari del Darfur e del Kordofan. La maggior parte degli altri gruppi etnici arabi nel Darfur non vennero coinvolti dalle vicende.[2] L'altro schieramento del conflitto è composto dai gruppi ribelli, tra cui spiccano il SLM e il JEM, i cui membri vennero reclutati principalmente dai gruppi etnici mussulmani non-arabi dei Fur, Zaghawa e Masalit. Anche l'Unione Africana (UA) e le Nazioni Unite (ONU) disposero la creazione di una missione congiunta di peacekeeping nella regione, denominata United Nations–African Union Mission in Darfur (o UNAMID). Sebbene il governo sudanese ufficialmente abbia sempre negato di aver sostenuto le milizie Janjawid, l'evidenza sembra supportare le tesi secondo cui il governo sudanese abbia fornito loro assistenza economica e armi, e che le stesse forze governative abbiano guidati degli attacchi congiunti assieme a tali milizie, molti dei quali contro civili.[3][4] Le stime del numero di vittime umane del conflitto variano e arrivano fino a diverse centinaia di migliaia di morti, sia dai combattimenti che dalla fame e dalle malattie.
Lo sfollamento di massa e le migrazioni forzate hanno costretto milioni di civili a recarsi presso campi per rifugiati o a lasciare il paese, creando una vera e propria crisi umanitaria. L'ex-Segretario di stato degli Stati Uniti, Colin Powell definì la situazione come un genocidio o atti di genocidio.[5]
A seguito della recrudescenza degli scontri durante i mesi di luglio e agosto del 2006, il 31 agosto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 1706, che istituì la missione UNAMID: una nuova forza di pace, composta da 20.000 caschi blu dell'ONU che sostituisca o affianchi i 7.000 uomini dell'Unione Africana al momento presenti sul campo. Il Sudan avanzò forti obiezioni nei confronti della risoluzione e dichiarò che le forze ONU che dovessero entrare in Darfur sarebbero state considerate alla stregua di invasori stranieri. Il giorno seguente i militari sudanesi hanno dato il via ad un'imponente offensiva nella regione. Diversamente da quanto accadde per la seconda guerra civile sudanese, che vide contrapposti il nord, prevalentemente musulmano, ed il sud, cristiano ed animista, nel Darfur la maggior parte della popolazione è musulmana, come gli stessi Janjawid[6]. Sono state finora approvate diverse risoluzioni dal Consiglio di Sicurezza, inviata sul posto una missione dell'Unione Africana (AMIS) e discusso il caso presso la Corte penale internazionale de L'Aia. Le aree più critiche sono i territori del Darfur occidentale, lungo il confine con il Ciad e oltre, dove l'assenza di condizioni di sicurezza hanno ostacolato anche l'accesso degli aiuti umanitari.
Nel 2009 il Generale Martin Agwai, a capo della missione di pace UNAMID, ha detto che nella regione la guerra vera e propria era da considerarsi terminata, che si doveva parlare più di banditismo e problemi di sicurezza che del conflitto in piena regola[7]. Nonostante tali affermazioni, le violenze ripartirono, fino alla tregua del febbraio 2010 firmata in Qatar a Doha tra il presidente sudanese Omar al-Bashir e il JEM[8]. Tuttavia i colloqui di pace sono resi difficili dalla violazione della tregua da parte dell'esercito sudanese che ha lanciato incursioni e attacchi aerei contro un villaggio.
Nel febbraio 2010, il governo del Sudan e il JEM firmarono un accordo per il cessate il fuoco, con un tentato accordo per perseguire la pace nella regione. Il JEM aveva molto da guadagnare dai negoziati e aveva in mente l'ottenimento di una forma di semi-autonomia come quella concessa al Sudan del Sud.[9] Tuttavia, i negoziati non andarono avanti per via delle accuse contro l'Esercito sudanese per aver avviato delle incursioni e dei bombardamenti aerei contro un villaggio, violando l'Accordo di Tolu. In risposta, il JEM, il principale e più grande gruppo ribelle del Darfur, promise di boicottare qualsiasi negoziazione.[10]
La Bozza di Carta Costituzionale dell'agosto 2019, firmata dai rappresentanti dei militari e del mondo civile durante la Rivoluzione sudanese del dicembre 2018, prevede che venga intavolato un processo di pacificazione che porti a un accordo di pace per il Darfur e per altre regioni sotto conflitto armato in Sudan entro i primi sei mesi del periodo di transizione verso un governo pienamente democratico e civile (la cui durata è stata fissata a 39 mesi).[11]
Il 31 agosto 2020, è stato firmato un accordo generale di pace tra il Governo del Sudan e i leader di diverse fazioni ribelli, ma nel corso del 2021 si sono verificati nuovi scontri.[12][13]