Paolino e Polla | |
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Opera teatrale | |
Autore | Riccardo da Venosa |
Titolo originale | De Paulino et Polla libellus |
Lingua originale | |
Genere | Commedia elegiaca |
Composto nel | XIII secolo |
Paolino e Polla (lat. De Paulino et Polla libellus[1]) è una composizione poetica in latino del XIII secolo, in forma dialogica[2], composta in 570 distici elegiaci, singolare prodotto letterario tardo medievale dell'ambiente svevo del Regno di Sicilia.
Fu opera del letterato Riccardo da Venosa (Richardus Venusinus), giurista della corte Hohenstaufen, che ne fa espressa dedica all'imperatore Federico II di Svevia.
Rimasta a lungo in ombra, l'opera fu riscoperta a metà dell'Ottocento, quando fu rinvenuta in copia manoscritta dallo studioso francese Edelestand du Méril[3].
Composta intorno o poco dopo il 1229, l'opera è ascrivibile a un modello letterario che si è voluto convenzionalmente denominare commedia elegiaca, la cui breve stagione si consumò a cavallo tra la metà del XII secolo, nella temperie culturale del Rinascimento del XII secolo, e i primi decenni del XIII. Questo genere poetico andò a collocarsi in uno spazio al confine tra la letteratura mediolatina e il teatro medievale in lingua volgare, e si espresse con uno sparuto ma importante gruppo di opere. Il genere letterario della commedia elegiaca ebbe la sua culla principalmente nella Francia centrale (approssimativamente la Valle della Loira, con Orléans quale centro principale di irradiazione) e (in parte minore) l'Inghilterra e la Germania. Opera di autore duecentesco, composta nel Regno di Sicilia, decentrato rispetto all'area originaria, Paolino e Polla rappresenta quindi un'eco tarda e periferica di quel genere letterario.
Con le sue 1.140 righe e i suoi 570 distici elegiaci, è la più estesa tra le commedie elegiache conosciute[4]. La sua mole più ampia del consueto si deve anche alla frequenza di parti dialogate, insolitamente alta se comparata ad altri prodotti dello stesso filone: tali parti si presentano solitamente in forma di dispute, con brevi e serrati scambi sentenziosi vertenti su due diversi aspetti o punti di vista riguardanti una determinata questione[4].
Con la sua «sciolta versificazione»[3] in «elegante»[3] latino, essa è un'importante testimonianza della letteratura fiorita nell'ambiente di corte del Regno di Sicilia in età federiciana e offre un interessante spaccato della vita del tempo. Il grecista Dario Del Corno ha accostato la comicità del giudice Riccardo da Venosa alla vena di un Woody Allen o di un Roberto Benigni[5]. La rocambolesca e maldestra serie di peripezie, che conduce l'ignaro protagonista Fulcone a un passo dalla decapitazione, contempla episodi farseschi, la cui verve comica, il medievista Peter Dronke definisce degna di un Buster Keaton[2].
Nell'opera, come dichiarato (forse programmaticamente) nel prologo, la componente farsesca si accompagna a intercalate espressioni di saggezza, da cui ognuno può attingere a proprio gusto[2]. Sono proprio le «trovate più serie»[2] che conferiscono al fabliau un più denso spessore ideologico, proponendolo all'attenzione del lettore come «satira brillante dei dibattiti scolastici del tempo»[2], e, forse, perfino come mezzo con cui l'autore esprime una sottile provocazione intellettuale nei confronti di Federico II, e, in particolare, su di una superficiale opinione sulla nobiltà che la tradizione attribuisce all'imperatore Hohenstaufen[2], di cui fa menzione anche Dante: «Tale imperò che gentilezza volse, | secondo 'l suo parere, | che fosse antica possession d'avere | con reggimenti belli»[6]. Su tale opinione l'autore si sofferma infatti a più riprese, con sguardo critico, tanto da far supporre che, pur nel contesto leggero di quell'opera, egli non risparmiasse l'occasione di voler «forse provocare il suo signore a ripensare la sua concezione superficiale della nobiltà»[7].